Nannipieri Luca



Palumbo e l'arte pubblica

Palumbo e l'arte pubblica

Si è muti di fronte a certe opere di Ciro Palumbo, di una mutezza dettata da un senso di composta e regolata meraviglia. L'arte del Novecento ci ha abituato alle più disparate reazioni: l'indignazione, la perplessità, la riverenza, il rifiuto, l'indifferenza, il biasimo, il vivo stupore. Ma quale reazione si genera in noi vedendo i lavori di Palumbo? Certamente non il rifiuto, non l'indifferenza, non il biasimo. Allora che cosa? Che cosa sorge in noi vedendo le sue tele? Di cosa si compone quella regolata meraviglia che proviamo?

Si pensa che i titani alle sue spalle siano Giorgio De Chirico (e certamente lo è), Salvador Dalì (e sicuramente lo è), René Magritte (e indubitabilmente lo è), Alberto Savinio (e lo è senza titubanza), ma anche Max Ernst e altri. Eppure la reazione che proviamo davanti alla sua attività non è una sensazione di ricapitolazione rispetto a quelle esperienze così decisive per il XX secolo. In fondo, essi sono tutti padri che lui ha tradito, e questa è la forza, questa è la necessità dello stile individuale quando riesce ad imporsi come tale: ovvero riconoscere una tradizione, riconoscerne le paternità, le dipendenze, le grandezze, e al tempo stesso tradirle, superarle. Si è epigoni di una tradizione quando non si è capaci di innovare. Si è invece artisti quando la tradizione - i padri - si riconoscono e si violano. Si diserta il loro campo, dopo averlo compreso, per generare il nostro. 

Infatti la prima reazione - forse la più epidermica, dunque non effettiva - che suscitano le opere di Palumbo è la riconoscenza e la ricapitolazione verso i due grandi movimenti che il Novecento ha imposto: il Surrealismo e la Metafisica. La realtà che surroga le leggi del visibile, per addentrarsi e testimoniare l'abisso in noi, invisibile agli occhi (il Surrealismo); e la realtà che essa stessa non si contiene nei limiti che i nostri occhi vedono, ma li travalica, al punto che l'ampiezza della veduta del nostro intelletto è assai superiore all'ampiezza della veduta dei nostri fisici occhi (la Metafisica). Ma Ciro Palumbo, come ho detto, non è un epigono di questi due grandi movimenti (con buona pace di Arturo Schwarz che vede il Surrealismo come il grande movimento culturale e antropologico ancora in atto nella contemporaneità). 

Ciro Palumbo non sta lì, seppur appaia di star lì. In fondo sia l'istrionismo surrealista che le piazze metafisiche hanno in comune un certo intimismo domestico, il sapere di finire tra le mura di una casa, di una villa, di una dimora (i grandi lavori d'affresco di Dalì mai furono compiuti per spazi esterni, come invece ebbe il fortunoso ardire Marc Chagall, ma rimasero teatralmente immortali e autoreferenziali solo nel suo Teatro-Museo di Figueras). Invece Palumbo - e credo sia questa la sottilissima strada che si sta aprendo se le istituzioni ne fossero accorte - lavora sullo spazio pubblico. Come le metope greche, che effigiavano il Partenone e i templi classici, come i bassorilievi romani che illustravano l'Ara Pacis Augustae o la Colonna Traiana, come la pittura vascolare, come Mario Sironi o Arturo Dazzi nei decenni novecenteschi del regime mussoliniano, io credo che l'arte di Ciro Palumbo - seppur ad oggi su tela, dunque pensata per uno spazio interno, privato - abbia l'ambizione (e la narrazione) per diventare effige pubblica. Questa è in fondo la reazione più adeguata che sentiamo davanti alle sue opere: esse sono una ricerca artistica che si adegua benissimo allo spazio privato, ma ha tutto il fascino e la potenza di narrazione per una composizione esterna e per i grandi spazi pubblici. Non è un invito alla Street Art, come oggi goffamente viene chiamata l'indifferenziata attività degli artisti che lavorano in esterno. È la sensazione che la sua arte possa divenire - per caratura della narrazione, per stile e modernità - una nuova arte pubblica, forse anche di Stato, come, con le dovute proporzioni, quella che Parigi chiese a Marc Chagall per il Teatro Opéra e quella che Firenze chiese a Giampaolo Talani per effigiare la nuova Stazione Santa Maria Novella di Firenze e quella che avrebbe potuto fare Igor Mitoraj se fosse stato meno star e più artista.

Perché dico questo? Perché l'arte pubblica, a differenza dell'arte pensata per uno spazio domestico, deve avere un connotato di narrazione visiva e simbolica. Deve essere immediatamente percepita e leggibile, come del resto lo era l'arte cristiana negli spazi di culto, dall'atto della fondazione fino all'Ottocento. E questa dimensione di immediata ricezione e narrazione visiva e simbolica di se stessa è presente nel lavoro di Palumbo (il chiaro e voluto riferimento all'Umanesimo e al Rinascimento nel ciclo di tele di questo volume è evidentissimo), mentre invece è assente in tanti altri pittori coevi che si rifanno ai movimenti surrealisti e metafisici.    

In fondo quando, ad inizio intervento, ci siamo domandati quale reazione spronassero le opere di Ciro Palumbo e non abbiamo detto né il rifiuto né l'indifferenza né il biasimo, intendevamo proprio questo: la sua arte può dar "Rinascenza", e può essere "Rinascenza" verso se stessa, se accettata per quel che, in nuce, essa è in grado di essere: ovvero una narrazione assolutamente contemporanea, consapevole e regolata, che ha la forza e il nitore per uscire dalla comodità dello spazio privato per diventare - nella migliore tradizione dell'arte scultorea a bassorilievo o pittorica greca e romana - una nuova e sperimentata arte pubblica. 

 

 

 

 

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